Follia: origini e significato

By 10 Aprile 2015 Per saperne di più
La follia e la sua definizione nel tempo

La psichiatria è quella branca della medicina che ha come oggetto di studio le i disturbi mentali. Il termine deriva dall’unione delle parole greche psiche (anima, spirito) e iatria (cura), utilizzato per la prima volta nel  1773 può essere tradotto quindi come cura dell’anima.

Quando si usa generalmente di il termine follia? Chi, per il senso comune può essere definito folle? Il folle è il “malato”, è colui che mostra costantemente le sue difficoltà di adattamento nei confronti della società nella quale vive; il folle esprime la sua follia nei comportamenti, nelle relazioni interpersonali; il folle è colui che esprime quelli che vengono definiti “stati psichici alterati”, anormali.

Eppure Blaise Pascal diceva: «Gli uomini sono così necessariamente pazzi che sarebbe essere pazzo, con un’altra forma di follia, il non esserlo»

Il termine follia deriva dal latino folle e il suo significato rimanda a vuoto o mantice.
Eppure il significato attribuito a questa parola è cambiato a seconda dei diversi momenti storici, della cultura, delle convenzioni sociali, a tal punto da essere arrivati a considerare folle qualcosa o qualcuno che prima era definito normale e viceversa. Ecco quindi che la follia si presenta come un fenomeno dinamico e cangiante.

Nel mondo classico la follia è legata alla sfera sacra: il folle rappresenta la voce del divino da ascoltare e interpretare.
Nel Medioevo il folle diventa il rappresentante del demonio, colui che deve essere liberato dal male e in qualche modo esorcizzato.
Un’interpretazione diametralmente opposta si ha nel Rinascimento quando il folle viene considerato una persona diversa, sia per i valori sia per la sua filosofia di vita, una persona che secondo questa prospettiva va rispettata come tutte le altre persone.
A partire dall’ottocento l’immagine del folle è quella di una “macchina rotta”, cioè lesionata nel cervello.

Tornando all’abbinamento tra folle e malato, tra follia e malattia mentale riportiamo un’importante esperienza di vita di Erving Goffman, uno dei massimi sociologi americani; egli decise di passare un anno come uomo delle pulizie nell’ospedale psichiatrico St. Elisabeth. Descrisse poi in modo dettagliato la sua esperienza in “Asylum” (1961) raccontando un’analisi sconcertante di ciò che aveva visto all’interno dei manicomi.
Goffman si occupò in particolare della depersonificazione alla quale erano soggetti i malati, ossia della loro progressiva perdita dell’identità personale, e sostenne che essa era causata proprio dal fatto che il manicomio era un’istituzione totale e perciò comprometteva radicalmente le libertà e l’espressione dell’individuo.

A proposito di questo riporto la frase di Giovanni Jervis, famoso psichiatra italiano che disse:

Il ricoverato si chiude in se stesso,
diviene abulico, dipendente, indifferente,
inerte, sporco, spesso scontroso,
regredisce a comportamenti infantili,
sviluppa atteggiamenti posturali e tic
stereotipati, si adatta ad una routine
di vita estremamente circoscritta e povera
dalla quale non desidera neppure
più uscire, spesso elabora convinzioni
deliranti di tipo consolatorio

– Giovanni Jervis – 

Il folle che diventa un malato psichiatrico, alla fine dei giochi non può che vedere quello che gli altri vedono, non può che essere quello che gli altri hanno scelto per lui quando hanno deciso di relegarlo in quel ruolo e mettergli in mano quel copione. Così in tutte le scene su quel palcoscenico egli non può che recitare la sua parte.